Gli assaggi di federalismo fiscale disperdono milioni di fondi in Regioni e Comuni, che li fanno sparire assegnandoli alle più improbabili ipotesi di impiego. Più del 43% dei programmi vale meno di 150mila euro.
Ripropongo un dettagliatissimo articolo apparso sulle pagine del Sole 24 Ore del 23 maggio scorso a firma di Gianni Trovati. Il pezzo illustra con fine precisione i rilievi della Ragioneria dello Stato sull’uso disparato delle risorse comunitarie, impiegati per la realizzazione di interventi tutt’altro che strutturali.
Quasi 660 progetti a cui non è stato assegnato nemmeno un euro solo in Campania e Calabria, un’altra decina di iniziative in Sicilia che si sono viste attribuire finora solo una manciata di spiccioli, meno del 5 per mille delle risorse complessive. Mentre il decreto sugli «interventi speciali», sesto passaggio attuativo del federalismo fiscale, prova a riscrivere la strategia nell’utilizzo dei fondi, in nome dell’accentramento su pochi filoni strategici e del commissariamento di chi si mostra troppo lento, bastano questi due flash per capire che cosa ingolfa ancora una volta l’utilizzo dei fondi europei.
I monitoraggi periodici della Ragioneria generale dello Stato testimoniano puntualmente i tassi di realizzazione al rallentatore che caratterizzano le Regioni italiane; l’ultimo, aggiornato a fine 2010, mostra che nelle Regioni del Mezzogiorno (obiettivo Convergenza) i pagamenti sono fermi a19,6%, mentre nel resto d’Italia (obiettivo Competitività) si raggiunge il 18,8%.
L’analisi condotta dall’Ifel (la fondazione Anci sulla finanza locale) sulla base degli elenchi dei beneficiari stilati dalle Regioni, però, fa un passo in più, e mette nere su bianco i mali che stand alla base di risultati così deludenti: frammentazione degli interventi, confusione fra gestione e programmazione, dirottamento dei fondi comunitari su programmi tutt’altro che “strategici”, spesso con l’obiettivo malcelato di utilizzare le risorse Ue per quello che non si riesce più a realizzare coni soldi propri.
Il primo è il dato più eclatante. Ai Comuni, sulla base della distribuzione condotta finora, andrà poco più di un quarto dei 30,6 miliardi di euro che il fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) dedica al nostro Paese nel ciclo di programmazione 2007-2013.
Solo i sindaci, però, sono titolari di 2.410 progetti, distribuiti in1.293 enti locali in pratica, ogni sei Comuni italiani uno è titolare di almeno un progetto da finanziare con il Fesr. Questa quota sale al 43% nelle Regioni del Mezzogiorno e raggiunge lo stellare 89% in Calabria, epicentro ineguagliabile della creatività locale a libro paga dell’Unione europea.
Gestire in tempi umani 1.049 iniziative in 364 Comuni diversi, che hanno bisogno di assistenza e coordinamento, sarebbe un’impresa impossibile anche per amministrazioni ben più strutturate di quella calabrese. Risultato: il 40% delle iniziative presentate è ancora all’anno zero.
E pensare che, vista anche l’esperienza del passato, la “concentrazione” delle risorse su iniziative forti era uno degli asset del nuovo ciclo di programmazione. La realtà dell’Italia a caccia di fondi Ue è diametralmente opposta: tolte le metropolitane di Napoli e Palermo, e la linea ferroviaria Roma-Viterbo, sono pochissime le iniziative in grado di uscire da un anonimato iner-locale per mostrare ilproprio effettivo vlore strategico.
Il 43,5% dei progetti non supera i 15omila euro di valore, una somma sufficiente a ristrutturare al massimo un paio di bilocali: le infrastrutture possono attendere. La polverizzazione delle risorse trasforma in una chimera la possibilità stessa di un monito-raggio efficace sui risultati effettivi ottenuti con l’impiego di risorse europee.
Lo stesso problema si verifica con l’assegnazione diretta a privati, destinatari del 41,5% dei fondi Ue con picchi al Nord (in Piemonte va ai privati il 95,7% dell’assegno europeo), in genere piccoli e piccolissimi operatori economici. Il fenomeno si verifica anche nelle Regioni dell’obiettivo Convergenza (in Puglia la quota destinata ai privati è il 57,9% del totale), dove dovrebbe essere ancora più forte l’indirizzo dettato dall’Unione di privilegiare politiche in grado di chiudere la forbice di infrastrutture e servizi pubblici rispetto ai territori più ricchi.
In un quadro così franunentato diventa difficile capire davvero che cosa si finisca per realizzare con i fondi europei.
Dal punto di vista degli obiettivi dichiarati, la fetta più importante delle risorse dovrebbe servire alla «riqualificazione» di aree urbane, industriali e commerciali (36,2% dei fondi assegnati finora) e ad interventi per la mobilità (33,3%), il resto finisce nei capitoli dedicati alla «salvaguardia del territorio» (11,9%), al patrimonio artistico e culturale (11,4%), e solo piccoli rivoli vengono destinati all’«efficienza energetica» e all’«inclusione sociale».
Capire in che misura questi obiettivi siano teorici e quanto invece rispondano ad azioni reali è uno dei compiti del monitoraggio ministeriale, con le verifiche appena avviate per evitare lo smacco del disimpegno automatico (si veda l’articolo a fianco). E per cambiare rotta nella programmazione, prima che sia troppo tardi.
Avvocato del Foro di Salerno. Founder Studio Legale Greco – diritto civile e tributario. CEO & Founder del portale Campania Europa.